Professoressa associata di Diritto del lavoro e di Diritto Sindacale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Brescia. Le sue ricerche nell’ambito del Diritto del Lavoro privilegiano la materia antidiscriminatoria e, in particolare, gli ambiti collegati al genere, alla disabilità ed all’età. É partner di progetti europei ed internazionali.
L’articolo riflette sul rapporto tra organizzazioni sindacali e genere per concludere che gli organismi collettivi sono dominati da una forte ideologia maschilista i cui effetti si ripercuotono, non solo sull’organizzazione interna, ma anche sui contenuti dei testi contrattuali. Fatte queste premesse, l’interrogativo che muove la ricerca è comprendere se le organizzazioni sindacali siano in grado di operare per colmare il gap di genere in materia di lavoro digitale, gap la cui evidenza è esplosa a causa della pandemia. L’articolo si chiude con l’individuazione di possibili aree di interventi contrattuali e con una riflessione/confronto sul rapporto tra evoluzione del modello sindacale ed evoluzione della idea di industria e del ruolo che potrebbe svolgere.
Parole chiave: relazioni industriali; sindacato androcentrico; digitalizzazione; divario di genere; nuovi modelli di relazioni industriali.
O artigo reflete sobre a relação entre sindicatos e gênero para concluir que os órgãos coletivos são dominados por uma forte ideologia masculina, cujos efeitos repercutem não apenas na organização interna, mas também no conteúdo dos textos contratuais. Dadas essas premissas, a questão que move a pesquisa é entender se os sindicatos são capazes de trabalhar para preencher o gap de gênero no trabalho digital, gap cuja evidência explodiu devido à pandemia. O artigo termina com a identificação de possíveis áreas de intervenção contratual e com uma reflexão/comparação sobre a relação entre a evolução do modelo sindical e a evolução da ideia de indústria e o papel que esta pode desempenhar.
In quello che, credo, sia stato l’ultimo articolo pubblicato, Massimo Roccella si interrogava sul se il sindacato servisse ancora
L’analisi, in un’ottica di genere, dell’interazione tra il dilagare del lavoro a distanza “emergenziale” come modello lavorativo dominante, e le scelte sindacali è la tematica che si vuole proporre in questo articolo. La domanda è sollecitata dalla dilagante letteratura e documentazione di fonte europea che rende l’approccio delle nostre organizzazioni sindacali a questi temi totalmente antistorico e privo di efficacia.
È risaputo che la diffusione della pandemia di COVID-19 ha portato ad un concreto e massiccio interesse per i lavori legati alla digitalizzazione, in particolare, ed in maniera quasi esclusiva, per il lavoro a distanza. Una modalità di lavoro che, anche nelle sue forme più ibride, come quella attuata, impropriamente chiamata “
Strettamente connesso a questa affermazione è l’interrogativo sul se la digitalizzazione possa spingere a superare/riequilibrare il divario di genere esistente in Italia in materia di occupazione. Nonché quale potrebbe essere il compito del sindacato, posto che siamo, infatti, di fronte ad un’interazione tra tecnologia e poteri decisionali. Da qui il quesito sul se l’azione sindacale potrebbe svolgere il ruolo di soggetto trainante per ridurre il gap di genere in tema di digitalizzazione
In linea di massima le relazioni industriali sono poco interessate alla differenza di genere. I soggetti che le organizzazioni sindacali rappresentano sono visti come categorie, in questo caso lavoratori, apparentemente non caratterizzati da nessun carattere sessuato.
La tentazione del neutro, in realtà, nasconde un modello sindacale che ha profondamente introitato, come prototipo, il lavoratore maschio e che, sia nei suoi rapporti interni, sia nelle sue produzioni contrattuali, tende a riprodurre il paternalismo derivato dalla società
La difficoltà che ha il sindacato a prendere in considerazione non in maniera formale esigenze di particolari gruppi di interesse è imputabile anche alla sua vocazione universalistica
L’ideologia della generalità, come detto, non è, però, sinonimo di neutralità. In realtà il finto neutro, spesso, nasconde forme di discriminazione
La disfunzionalità presente nella maggior parte degli articolati contrattuali per quanto riguarda il genere è imputabile, anche, al difficile rapporto che hanno le donne con il sindacato, a causa del maschilismo dell’istituzione. La diversità di codici linguistici e la gestione al maschile dell’organizzazione sindacale suscita nelle donne un senso di distanza, che si concretizza nella loro minore partecipazione alle organizzazioni collettive
La difficoltà che hanno le donne ad identificarsi con le politiche sindacali in tema di genere, però, non è tipica della situazione italiana. Ci ricorda l’OIL
La scarsa dialettica tra donne e relazioni industriali gioca, quindi, su due piani. Quantitativamente le donne sono meno rappresentate e meno presenti nei posti chiave (non simbolici), qualitativamente la prospettiva di genere è quasi del tutto assente nei testi dei contratti collettivi, che regolano specifici aspetti “della condizione femminile”. L’azione sindacale per essere efficace, di conseguenza, dovrebbe agire sia su un piano interno, quello dell’organizzazione; sia su un piano esterno, finalizzato ad incidere proprio sui contenuti della contrattazione collettiva.
La forte connessione tra la femminilità e lavoro riproduttivo, come la maternità e il lavoro di cura, se traccia una linea di demarcazione tra le sfere del lavoro pagato e non pagato, ha anche implicazioni per la segregazione di genere nel mercato del lavoro. Uomini e donne non lavorano, di solito, negli stessi settori. L’edilizia, l’elettricità, il gas e l’acqua, i trasporti, l’industria manifatturiera e l’agricoltura rimangono dominati dagli uomini; la salute, l’istruzione e il lavoro sociale sono settori occupati dalle donne con un tasso del 30, 4% contro l’8, 3% (uomini).
Fino a poco tempo fa l’analisi della situazione lavorativa delle donne si sarebbe fermata qui, legata a un mercato del lavoro le cui caratteristiche non cambiavano da anni. L’avvento della digitalizzazione, anche nelle sue implicazioni più elementari, ci costringe, invece, a valutare se, le nuove competenze digitali richieste dal mercato del lavoro, possono minare o rafforzare il
Ci guida nella riflessione la lettura dell’EIGE-Italia 2020; nel 2018, sottolinea il rapporto, le donne laureate in ITC erano il 21% (uomini 79%), le donne specializzate in qualche disciplina collegata alle ITC il 15% (uomini 85%), le donne ingegnere il 23% (uomini 77%). I dati esposti non hanno bisogno di commenti. Le donne hanno e continueranno ad avere, almeno in un futuro prossimo, meno conoscenze tecniche e meno potere sugli strumenti digitali. Ciò implica che, in un mercato del lavoro in cui l’evoluzione tecnologica è al centro della scena, è molto probabile che rimangano ai margini dei processi produttivi e che la segregazione orizzontale e verticale si intensifichi. Il
Uno dei risultati più tristi di questo processo di formazione poco guidato, che si ripercuote e si ripercuoterà nel sistema lavoro, è l’esistenza del divario di genere anche nelle competenze digitali basiche come sapere usare il computer, sapere inviare messaggi di posta elettronica, creare documenti elettronici
Nell’ottobre 2019, poco prima dell’inizio della pandemia, l’Osservatorio sullo Smartworking del Politecnico di Milano ha pubblicato un rapporto sull’uso dello
I dati raccolti dall’Osservatorio del Politecnico non erano scorporati per genere. Le caratteristiche delle professionalità e il tipo di aziende interessate ci fanno, però, supporre che non fossero molte donne a svolgere, parte della loro prestazione lavorativa, con questa modalità.
L’arrivo della pandemia, come ben noto, ha cambiato questo scenario in modo drammatico e brutale. Nel momento più estremo del lockdown (marzo – aprile 2020) 4, 4 milioni di lavoratori, tra aziende private e amministrazioni pubbliche, lavoravano a distanza, ovvero da casa propria. Un balzo quantitativo, ma anche qualitativo che ha cambiato e cambierà profondamente l’atteggiamento dei lavoratori e delle aziende nei confronti del lavoro a distanza.
Si può quindi, senza dubbio, parlare di un prima e di un dopo COVID-19 e la frontiera tra le due epoche ha una doppia connotazione.
La prima, è una connotazione giuridica, sono state introdotte nuove norme che, anche se parzialmente, hanno cambiato le precedenti. La seconda, una connotazione funzionale, il lavoro a distanza è usato, non solo come tecnica organizzativa, ma anche come misura di sicurezza per la salute e, soprattutto, ed in modo massiccio, come misura di conciliazione vita-lavoro. Nel periodo di vigenza del decreto “Cura Italia” (decreto legge 18/20, convertito in legge 27 del 24/4/20), momento in cui erano rimaste operative solo le attività essenziali, il 32% dei dipendenti lavorava a distanza, di questo circa il 12-20% era composto da donne. Se scomponiamo la percentuale per settori, come intuibile, troviamo l’istruzione, settore femminilizzato in cui il lavoro a distanza era diventato modalità “normale” e non scelta facoltativa. Poco prevedibilmente, però, nella percentuale rientrano anche settori (minerario, manifatturiero, edilizia, commercio, servizi sanitari) che, complessivamente, hanno una minore incidenza di lavoro a distanza, ma in cui quasi tutti i lavoratori a distanza erano donne. Lo smartworking dell’emergenza comincia così a delinearsi come il principale protagonista per l’attività di cura
Il 4 maggio 2020, data dell’apertura delle prime attività economiche, il 72% dei lavoratori che tornano al lavoro erano uomini. Il risultato non è imputabile, solo, alla tipologia di settori produttivi che riaprirono, edilizia e manifatturiero, in cui la maggior parte degli impiegati sono uomini; anche nei settori in cui il lavoro a distanza era poco diffuso, nuovamente, lo scelsero, quasi solo, le donne.
Otre che da una serie di ragioni, profondamente radicate nel nostro tessuto sociale e lavorativo
La cosa più grave è che questa idea di equilibrio vita-lavoro è profondamente radicata nel Governo. Nel dicembre 2020 – nonostante il diverso impatto di genere del lavoro a distanza fosse diventato oggetto di pubblico dibattito e di preoccupazione – la legge n. 176/20 ripropose la stessa previsione, anzi, la estese anche ai casi in cui i bambini dovessero rimanere a casa perché in quarantena (art. 21 bis, decreto legge 104/2020)
La reiterata scelta di finta neutralità, compiuta dalle organizzazioni sindacali italiane le allontana dalle strategie suggerite dalle raccomandazioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) edalla Confederazione Internazionale dei Sindacati (ITUC)
Quello che la legislazione d’emergenza ha chiamato
Date le condizioni in cui si è svolto, e si svolge, il lavoro a distanza nell’era COVID-19, l’unico elemento certo su cui riflettere è l’idoneità di una modalità di lavoro, che si svolge “a domicilio” ad essere uno strumento di promozione dell’occupazione femminile.
La società italiana, come più volte sottolineato, è molto patriarcale; di conseguenza la piena occupazione femminile, di frequente è, ostacolata dall’alto carico di lavoro di cura che grava sulle donne: difficoltà che non è tenuta in conto né dalla normativa legale, né da quella contrattuale. La crisi legata a COVID-19 ha aumentato questo carico che ha pesato, indistintamente, su tutte le donne. Il 68% delle lavoratrici, pur avendo un
Sembra molto discutibile, quindi, anche sulla base dei dati riportati, e pur tenendo in conto la particolarità della situazione, che il lavoro a distanza favorisca la conciliazione tra lavoro e vita familiare e non costringa, invece, le donne a lasciare il lavoro. Questo timore, del resto, è confermato dai dati relativi alla perdita di posti di lavoro che ha colpito le lavoratrici nel periodo tra aprile e settembre 2020. L’Italia ha registrato una perdita di lavoratrici doppia rispetto alla media Europea (la perdita in Italia è del 4,1% del 2,2% in Europa), ci informa un recentissimo rapporto redatto dalla Fondazione Consulenti del Lavoro
Tutte le riflessioni e le valutazioni fatte portano ad un unico risultato; la parità di genere è un’altra vittima del COVID-19, una vittima più volte prevista, alla quale viene dedicata tantissima attenzione mediatica, ma nessuna (pochissima) attenzione sostanziale da parte dei nostri legislatori e delle nostre parti sociali.
L’impatto prodotto da COVID-19, come più volte detto, non è solo effetto di un evento isolato, ma deriva da condizioni preesistenti, risultato di processi culturali e strutturali. Le crisi portano alla luce le fragilità e le disuguaglianze esistenti: la disuguaglianza di genere era ed è una di queste.
Siamo in un momento storico di grande incertezza. Lo shock violento prodotto dalla pandemia del COVID 19 ci fa dubitare di ciò che sembrava un’acquisizione quasi certa: le future evoluzioni dei modelli economici e tecnologici.
Il momento di passaggio tra vecchie certezze e nuovi dubbi si coglie bene leggendo i più recenti documenti europei ed internazionali. Nella Strategia Europa 2020 l’UE ipotizzava di uscire dalla crisi occupazionale proponendo modelli di sviluppo inclusivo in cui la digitalizzazione e la sostenibilità ambientale avrebbero fatto da volano. Siamo nel 2010, si puntava a ricostruire, anche se su basi parzialmente nuove, un tessuto occupazionale incrinato dalla precedente crisi finanziaria.
La profondità delle contraddizioni aperte dalla pandemia è la cifra che, invece, segna i documenti successivi. Nel settembre 2020 il rapporto finale di una ricerca curata da McKinsey
Un primo e violento assaggio di queste previsioni, del resto, per quanto riguarda l’Italia, l’abbiamo già avuto nei mesi finali dell’anno 2020. Al dicembre 2020 risultavano scomparsi 101. 000 posti di lavoro, 99. 000 dei quali erano occupati da donne. In altre parole la crisi attuale ha già incominciato a colpire, in maniera selettiva, settori tradizionalmente femminili (turismo, ristorazione, commercio al dettaglio, lavoro domestico). La crisi occupazionale futura, invece, potrebbe essere causata da un’offerta di lavoro poco consona alla prevalente formazione professionale delle donne, escludendole dal mercato del lavoro.
Le valutazioni sopra riportate, compiute da istituti di ricerca europei e internazionali, tengono conto di realtà tra di loro profondamente differenti quanto a situazione economica ed a sviluppo tecnologico. Per analizzare meglio l’attualità del pericolo, in relazione al nostro paese, possiamo rifarci a quanto contenuto nel
L’elenco delle difficoltà da affrontare è vasto e merita di essere esposto analiticamente: segregazione di genere verticale e orizzontale, distribuzione iniqua del reddito, mancanza di opportunità di sviluppo professionale, scarso riconoscimento del “lavoro femminile”, divisione tradizionale del lavoro di cura. Una grande varietà di questioni, come si vede, che, in quanto incidono su molteplici sfere, richiedono competenze differenti. L’attore pubblico, sicuramente, riveste un ruolo decisivo: ma l’azione sindacale, forte delle sue competenze negoziali, può fare molto.
Ancorando l’analisi al periodo emergenziale, la tematica della digitalizzazione si è saldata con quella del lavoro a distanza, prestazione lavorativa che si effettua grazie alla digitalizzazione, ma che sarebbe estremamente riduttivo identificarla con tutto il mondo digitale. L’impatto che ha avuto il lavoro a distanza, parente povero del digitale, però, se è stato devastante per la parità di genere, ha suscitato tantissimo interesse come modalità lavorativa: questo ci fa capire che, esploso per necessità, il lavoro a distanza, anche in futuro, diventerà sempre più presente. Fondamentale, quindi, porre subito le basi di quello che, in un’ottica di genere, potrebbe essere un giusto percorso negoziale per disciplinare il lavoro a distanza o
Negli ultimi mesi la regolazione del “lavoro agile” è entrata negli articolati dei rinnovi contrattuali (Telecomunicazioni e Industria metalmeccanica), come anche nei testi di alcuni accordi aziendali. Più che esaminare i contenuti degli articolati nazionali è interessante valutare le clausole contenute nei contratti aziendali stipulati negli ultimi mesi. Livello contrattuale in cui prendono forma i principi e le regole indicate dal contratto nazionale: ma anche termometro della reale sensibilizzazione che la base sindacale ha verso specifiche tematiche. Se analizziamo i contenuti negoziali in questa prospettiva è evidente lo scollamento tra la volontà politica espressa dai vertici delle organizzazioni sindacali e i contenuti dell’attività contrattuale di secondo livello. La CGIL, ad esempio, in un recente documento criticava fortemente l’identificazione tra lavoro a distanza e misure di conciliazione
Il collo di bottiglia che si crea tra il decisore sindacale “politico” (le segreterie confederali) ed i concreti contenuti negoziali mina, allo stato, qualsiasi possibile innovazione delle politiche contrattuali. Il soggetto collettivo, però, è con l’esercizio del potere contrattuale – a livello nazionale ed anche e, per molte materie, soprattutto, a livello aziendale – che esercita pienamente la sua funzione di rappresentanza. Negare o ignorare la rilevanza, in questo caso, la specificità della questione femminile, significa permanere nell’equivoco, che già ha fatto tanti danni in passato, che da tutelare siano solo gli interessi collettivi.
Se guardiamo alle ultime vicende sindacali, penso in particolare alla saga dei
Un sindacato che contribuisce ad acuire le diseguaglianze di genere, tramite la sua attività negoziale, non serve più, è disfunzionale: è necessario un cambio di paradigma, c’è bisogno di innovazione sociale. Quello che si propone, perfettamente in linea, sia con le politiche sindacali, sia con quanto costantemente richiesto a livello europeo
L’aumento dell’occupazione femminile, fino a raggiungere il livello di quella maschile, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, ad esempio, significherebbe un aumento del PIL dell’11%. Inoltre, molte delle tematiche, impropriamente stigmatizzate come di interesse femminile (ad esempio ridistribuzione dei carichi familiari, conciliazione vita – lavoro), in realtà, implicano un ripensamento dei tempi di lavoro che si ripercuote sull’organizzazione di vita, cosa della quale beneficiano tutti.
Se la contrattazione collettiva non può incidere molto sulle politiche attive in materia di occupazione, ha, però, ampi margini per favorire, se non gli ingressi nel mondo del lavoro, almeno la permanenza delle donne che ci sono entrate. Giocare sulla flessibilità oraria, ad esempio, è una tecnica sperimentata con successo in Germania nel 2018, in un altro momento di crisi
Le misure che intervengono sulla flessibilizzazione dell’orario di lavoro, ovvero della prestazione, per essere effettivamente neutre devono essere messe in piedi unitamente ad azioni finalizzate alla riduzione del gap salariale: la contrattazione collettiva, per, questo può fare molto. Per raggiungere questo obiettivo i punti cui intervenire sono, elencati senza alcun ordine di priorità, sono il bilancio di competenze, la trasparenza salariale e la formazione.
Il bilancio di competenze, già adottato in alcuni settori merceologici, consente di fare il punto sulle competenze professionali dei dipendenti e programmare i loro sviluppi di carriere, nonché evidenziare la presenza negli inquadramenti contrattuali di eventuali discriminazioni indirette.
Quanto alla trasparenza salariale (considerata fondamentale per superare il
La formazione, infine, come l’esperienza recente ha dimostrato, e come il futuro sempre più ci indicherà, è chiave di volta per incidere sulle diseguaglianze di genere
In una logica di innovazione sociale sarebbe da ripensare anche il rapporto che l’organizzazione sindacale ha con il territorio. Ragionare di conciliazione vita-lavoro non può prescindere dal riflettere sul complessivo utilizzo, non solo del tempo lavoro, ma anche del tempo/organizzazione extra-lavoro: questo significa entrare in contatto con realtà differenti da quelle strettamente legate allo spazio lavorativo. Serve, quindi, una modifica della geografia territoriale degli interessi. La contrattazione territoriale – capace di suggerire soluzioni trasversali e cross-settorialie, soprattutto, interlocutrice di quelle piccole imprese (la maggioranza nel tessuto produttivo nazionale) che non hanno al loro interno rappresentanze sindacali – potrebbe rappresentare una soluzione
Il genere, d’altra parte, pure a livello internazionale, è una delle variabili prese in considerazione quando si immaginano strategie di riequilibrio.
Una prospettiva che fa pensare, anche se il dibattito è solo all’inizio, è quella che sposta l’attenzione dai soggetti collettivi a cui siamo abituati a delegare i cambiamenti sociali (sindacati; governi), all’industria. Certamente il ruolo propulsivo dell’impresa, anche come organo di ridistribuzione delle opportunità sociali, è già presente quando si parla di responsabilità sociale, tuttavia, questo fenomeno ancora embrionale ha, forse, caratteristiche diverse.
Punto di avvio di questa riflessione è la necessità, determinata dalla crisi connessa al COVID-19, di ripensare, non solo i metodi di lavoro, ma anche gli approcci al lavoro. Messa in discussione è la visione strettamente tecno-economica che ha dominato negli ultimi anni, tutta concentrata sulla digitalizzazione e sulle tecnologie, senza prestare attenzione a principi di giustizia sociale e sostenibilità.
L’alternativa che si prospetta è un’industria – Industria 5.0 – più orientata verso l’uomo e che rifiuta l’idea di essere basata puramente sul profitto. Un’industria che fa della sostenibilità il proprio punto di forza e che, nella sua idea di sostenibilità, include sia considerazioni ambientali che sociali. Il miglioramento delle condizioni di lavoro, come si legge nella pubblicazione “
La pressione delle nuove tecnologie, unita all’emergenza determinata dalla pandemia, sembra che abbia dato un’accelerata al ripensamento di modelli di impresa meno antagonisti. Se l’impresa, in qualche modo, invade territori prima riservati alle organizzazioni collettive, resta da vedere quali saranno le reazioni di queste ultime. Fino ad ora, nonostante l’impegno formale contenuto nel Patto per la Fabbrica del 2018, all’ammorbidimento delle strategie conflittuali non ha fatto seguito l’adozione di modelli più partecipativi. Vero è che i rinnovi contrattuali, successivi allo scoppio della pandemia (penso a quelli dei metalmeccanici e delle telecomunicazioni), hanno introdotto, non solo espliciti riferimenti al Patto per la Fabbrica, ma anche incrementato i diritti di partecipazione. Non so, però, se bastino, quelli che, allo stato, sembrano piccoli ritocchi che operano sempre all’interno di dinamiche collettive già consolidate e, per molti versi asfittiche.
Serve, forse, un atto di coraggio che, vista la situazione non è per nulla antistorico, che immagini un progetto rifondativo delle relazioni industriali: il rischio, altrimenti, è essere scavalcati dai processi evolutivi che sembrano essere stati messi in atto nel mondo imprenditoriale.
Esprime chiaramente questo pensiero,
V. a questo proposito, gli specifici dati in
Una tra tante è il divario salariale. Le donne lavorano in attività meno pagate, quindi, quando si tratta di scegliere chi starà a casa o di flessibilizzare la propria attività di lavoro, la scelta è molto semplice.
La stessa impostazione la troviamo anche in tutta la normativa sui congedi parentali legati al Covid che non prevede la possibilità per chi lavora da casa di prendere il congedo; lo
Il 14 marzo 2020 Governo e parti sociali hanno firmato il “
Per la valutazione sono stati presi in considerazione cinque fattori: connettività, capitale umano, uso di Internet, inclusione digitale (integrazione aziendale e commercio elettronico) e servizi pubblici digitali.
Cfr. da ultimo, COM(2020) 152 final,
Il riferimento è al contratto siglato dalla IG Metal che dà la possibilità ai lavoratori/alle lavoratrici di ridurre volontariamente il loro orario di lavoro, fino ad un minimo di 28 ore. La perdita economica è bilanciata da incrementi retributivo, sia in relazione alla paga oraria, sia in percentuale fissa. A compensare la diminuzione del monte ore lavorato il sindacato IG Metal ha concesso alle aziende di assumere lavoratori con un orario lavorativo superiore a quello contrattuale.
La proposta ha molti punti di contatto con le modifiche al testo dell’art. 46 del Codice delle pari opportunità adottate, nel novembre 2020, come base di discussione dalla Commissione lavoro.
Un’occasione importante è data dalla possibilità di accedere al Fondo nuove competenze la cui scadenza è stata prorogata al 30 giugno 2021. L’obiettivo dello strumento è permettere alle imprese di realizzare specifiche intese di rimodulazione dell’orario di lavoro per mutate esigenze organizzative e produttive dell’azienda, in base alle quali una parte dell’orario di lavoro viene usata per percorsi formativi. I fondi, tuttavia, possono anche essere utilizzati per favorire la realizzazione di percorsi di ricollocazione dei lavoratori.
I Ccnl cominciano a stabilire percorsi formativi per i lavoratori a distanza anche nell’ambito delle attività formative annuali (Ccnl Telecomunicazioni, linee guida Ania, Ccnl industria alimentare, Ccnl coop di trasformazione prodotti agricoli) ma non prevedono particolari condizioni di favore per incentivare la partecipazione delle lavoratrici.
Questo articolo è destinato agli Studi in memoria di Massimo Roccella, di prossima pubblicazione per la casa editrice ESI.